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Brigantesse : da Francesca La Gamba a Michelina Di Cesare

Ultimo Aggiornamento: 09/10/2010 10:29
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09/10/2010 10:04

Dopo la caduta del Regno delle Due Sicilie (1861) l'esercito sabaudo si trovò
di fronte alla dura resistenza dei sudditi del detronizzato re Francesco II
QUELLE BRIGANTESSE CHE NELL'800
DIFESERO IL SUD ARMI ALLA MANO
di VALENTINO ROMANO
Nel febbraio del 1861, con la capitolazione di Gaeta, ultima roccaforte borbonica, il Regno delle Due Sicilie cessa, di fatto, di esistere. Francesco II, ultimo Re di Napoli, ripara a Roma, ospite dello Stato Pontificio. La precarietà dell'esilio, la solidarietà di numerose dinastie europee e le notizie - spesso ingigantite - delle difficoltà che il nuovo stato italiano incontra per radicarsi nel territorio, lo spingono a coltivare la speranza di un sollecito ritorno sul trono.
Dovunque, nei territori dell'ex regno - a Napoli come nei centri minori - sorgono comitati segreti filoborbonici, con lo scopo dichiarato di sollevare le popolazioni contro i Piemontesi.
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Alcune brigantesse-partigiane: qui
Michelina De Cesare. A seguire...
In tutto il Mezzogiorno si riaccendono improvvisamente i fuochi della ribellione contadina: fuochi che - a ben dire - hanno sempre infiammato il Meridione d'Italia; fuochi ora alimentati da uno sconquasso politico e sociale insostenibile.
Il possesso e l'uso della terra hanno da sempre costituito un fattore scatenante di rivolte. Ma né le leggi eversive né l'esproprio dei beni ecclesiastici hanno fatto conseguire la più antica aspirazione delle classi rurali, la proprietà della terra.
Ed è terra ostile quella che i contadini lavorano per conto di altri, aristocratici e latifondisti. Spesso sottratta - zolla dopo zolla - ai boschi, alle macchie ed alle pietraie montane.
In cambio i contadini ricevono un salario che consente appena di sopravvivere..
Il mutamento di governo ha ingenerato speranze che ben presto si rivelano infondate. La terra cambia proprietario ma i contadini ne sono sempre fuori, messi nell'impossibilità pratica di acquistarla o riscattarla con i sofismi di una legge fatta da un parlamento di "galantuomini" per i "galantuomini".
Il destino dei contadini appare segnato: rassegnarsi o ribellarsi.
L'esercito borbonico, che per molti giovani rappresentava l'unico sbocco occupazionale, è stato disciolto. Funzionari ex borbonici senza scrupoli, passati nella burocrazia del Regno d'Italia, hanno scientemente occultato il richiamo alle armi nel nuovo esercito italiano per favorire il disordine, così che una moltitudine di giovani si è ritrovata bollata con il marchio della diserzione, senza nemmeno venirne a conoscenza.

Contadini senza terra e soldati senza esercito null'altro possono fare che darsi alla macchia. Nascono e proliferano, ingrossate anche da gruppi di evasi dai bagni penali borbonici, le bande dei briganti che sfruttano la conoscenza dei luoghi, l'ardimento e la sete di rivendicazione sociale per dare scacco all'esercito piemontese, un esercito straniero, che parla una lingua straniera, che applica leggi straniere, che obbedisce ad un re straniero e che dunque è un esercito di occupazione.
La violenza esplode allora in tutta la sua virulenza: l'occasione è propizia anche per soddisfare la sete di vendetta troppo a lungo repressa nei confronti dei possidenti, dei "galantuomini" e del clero.
Nelle Calabrie, nelle Puglie e, soprattutto, in Basilicata sono messi a fuoco e depredati interi paesi, massacrate le personalità più in vista e più odiate, sbaragliate le truppe piemontesi.
L'esercito è impotente, percorre a casaccio le contrade più impervie, cade in imboscate, vede i suoi uomini falciati da un nemico invisibile, reagisce con violenza alla violenza in una spirale infinita di sangue.
Il fenomeno del brigantaggio approda nel Parlamento che, lungi dal preoccuparsi di tentare - con una saggia politica di riforme sociali - di rimuoverne le cause, sceglie la via della repressione, adottando una legislazione speciale, la legge Pica, che instaura il terrore nei territori occupati, la fucilazione sul campo, lo stupro delle donne dei ribelli.
In questo contesto matura il dramma delle "brigantesse", che è dramma della rottura dell'equilibrio familiare, dramma di madri senza più figli, di ragazze orfane dei genitori, di vedove: è dramma di donne disperate che, ribaltando un ruolo stereotipo di rassegnazione e sudditanza, si dimostrano capaci di affiancare con coraggio i propri uomini e partecipare attivamente alla rivolta contadina.
E' difficile attribuire una data di nascita al brigantaggio femminile, ma una prima significativa figura femminile di età moderna può essere individuata in Francesca La Gamba, nata a Palmi (RC) nel 1768 e attiva nel decennio di occupazione francese (1806-1816).

Francesca, filandiera di professione, madre di tre figli, divenne capobanda, spinta da
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Arcangela Cotugno
ed Elisabetta Blasucci
un'incontenibile sete di vendetta contro i francesi che l'avevano colpita negli affetti più cari. Rimasta vedova del primo marito, dal quale aveva avuto due figli, convolò in seconde nozze. Avvenente d'aspetto ed esuberante nel carattere, attirò le mire di un ufficiale francese che, invaghitosene, tentò - forte della sua posizione sociale - di sedurla. Respinto dalla fiera Francesca il militare pensò di vendicarsi in maniera terribile. Nottetempo fece affiggere un falso manifesto di incitamento alla rivolta contro l'esercito francese di occupazione ed il mattino successivo fece arrestare i figli della donna, accusandoli di essere gli autori della bravata. Alle suppliche di Francesca, l'ufficiale fu irremovibile: i giovani subirono un processo sommario e furono fucilati.
Francesca, pazza di dolore, si unì ad una banda di briganti che operava nella zona, dismise gli abiti femminili ed indossò quelli dei briganti.
In breve fornì prove di ardimento tali da divenire il capo riconosciuto della banda stessa, seminando ovunque il terrore. I francesi si accanirono nella caccia della donna, fino a quando un loro drappello cadde in un'imboscata tesa da Francesca. Tra i soldati fatti prigionieri la sorte volle che ci fosse proprio l'ufficiale suo nemico. Con una coltellata Francesca gli strappò il cuore e lo divorò ancora palpitante.
Nell'orrore di questa vicenda, pure caricata di colore dal mito, possono leggersi le ragioni che hanno spesso indotto tranquille popolane meridionali a trasformarsi in Erinni vendicatrici: la prevaricazione degli occupanti, il loro disprezzo per gli affetti feriti, l'irrefrenabile ansia di vendetta suscitata nei popoli conquistati.
Crollato il mondo familiare intorno al quale si è costruita a fatica una pur misera esistenza, la vendetta femminile si dimostra ancor più feroce di quella maschile.
Si tratta di fenomeni tuttavia limitati che fanno da contraltare a tanti episodi di rassegnazione e di pianto: costituiscono un'eccezione, insomma, non già la regola.
Appare dunque azzardato il tentativo di attribuire autonomia assoluta al brigantaggio femminile preunitario.

Forse sarebbe più corretto parlare di una "questione dentro la questione". E questo non sminuisce il ruolo delle donne nella rivolta contadina. Anzi, lo amplia e agevola la comprensione dell'intera questione delle classi subalterne meridionali.
E' comprovata invece, nelle vicende rivoluzionarie della seconda metà dell'ottocento la presenza di un considerevole numero di donne nell'organizzazione brigantesca.
Chi può, infatti, legittimamente sostenere che in una banda di briganti, numerosa e perfettamente organizzata (come tante nel periodo che trattiamo), si potesse fare a meno della presenza delle donne per motivi logistici, di collegamento, di approvvigionamento e, perché no, anche per motivi affettivi?
Occorre qui introdurre ed operare - semmai - un'altra distinzione che dall'ottocento ad oggi ha diviso e divide gli studiosi: la distinzione tra "la donna del brigante" e "la brigantessa".
Numerosi sono gli esempi di " donne del brigante", più rari - ma non meno significativi - quelli di "brigantesse". Gli uni e gli altri concorrono però in eguale misura a definire il ruolo della donna nelle classi rurali della seconda metà dell'ottocento meridionale italiano e contribuiscono certamente all'affermazione del posto che la donna occupa nella odierna società italiana.
La "donna del brigante" è colei che ha dovuto o voluto seguire il proprio uomo (spesso marito, talora amante, raramente figlio) che si è dato alla macchia.
Nel primo caso, quello della costrizione, il darsi alla macchia del proprio uomo l'ha confinata in una condizione ancora più disperata. Le è venuta meno ogni forma di sostentamento: l'opinione pubblica l'ha additata con disprezzo e l'ha isolata, spesso anche per timore di sospetti di connivenza. Non le è rimasto che il mendicio ed il meretricio. Sola, senza mezzi, disprezzata dai borghesi benpensanti e dai popolani acquiescenti, controllata a vista dalle autorità governative, talvolta oggetto di attenzioni inconfessabili dei "galantuomini", ha preferito alla fine seguire fino in fondo la scelta di vita del suo uomo.

La "donna del brigante" è anche colei che viene rapita e sedotta dal bandito, ridotta in stato di schiavitù e costretta - contro il suo volere - a seguirlo nelle sue azioni
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Filomena Pennacchio, Giuseppina
Vitale e, sdraiata, Maria Tito
brigantesche. Spesso finisce però per innamorarsene, per quella condizione psicologica che oggi è classificata come "sindrome di Stoccolma".
E' il caso, ad esempio - sempre nel periodo di occupazione francese - di una non meglio identificata Margherita.
Il brigante Bizzarro, uomo violento e sanguinario, imperversava nelle Calabrie. Costui, nel corso di una delle sue crudeli scorribande, sterminò un intera famiglia, trucidò un padre e ne rapì la figlia Margherita. Bizzarro sicuramente stuprò la donna, la rese sua schiava e la condusse con sé, in groppa al proprio cavallo, nelle imprese brigantesche alle quali dava continuamente vita. Ci si aspetterebbe che la donna fosse investita da rabbia, rancore e odio. Invece in Margherita, lentamente, l'odio verso Bizzarro si trasformò in ammirazione, il sentimento di vendetta fu sostituito dall'amore verso il boia della sua famiglia. Ne diventò la compagna ed il braccio destro e lo accompagnò nelle sue scorrerie, gareggiando con lui in audacia e coraggio. Catturata in un'imboscata, non sopravvisse a lungo ai rigori della prigione che, come vedremo più avanti non erano inferiori a quelli della latitanza.
Per un beffardo gioco del destino una reazione opposta dimostrò invece - proprio nei confronti dello stesso Bizzarro - la donna che subentrò a Margherita nelle grazie del bandito: Niccolina Licciardi. Un giorno erano entrambi braccati dai piemontesi.
Bizzarro, in un raptus di follia omicida, sfracellò contro le pareti di una caverna il neonato avuto dalla compagna, per la sola ragione che il pianto del bimbo rischiava di rivelarne la presenza agli inseguitori. Niccolina non versò neppure una lacrima. Con le mani scavò una fossa, vi seppellì il figlioletto e si pose a guardia della tomba - anche dormendovi sopra - per evitarne lo scempio da parte degli animali selvatici che infestavano la zona. Profittando poi del sonno di Bizzarro, gli sottrasse il fucile e gli fece saltare le cervella, sparandogli in un orecchio. Decapitato il bandito, ne avvolse la testa in un panno, si diresse a casa del governatore di Catanzaro e sul suo desco lanciò il macabro trofeo. Incassata la taglia, ritornò sui monti e di lei si perse ogni traccia.

Alcune volte, ed è il caso della libera scelta, "la donna del brigante " segue volontariamente l'uomo di cui è innamorata. Tale appare la vicenda di Maria Capitanio. La ragazza, nel 1865, a quindici anni si innamorò di Agostino Luongo, un operaio delle ferrovie. Maria continuò ad amarlo e a frequentarlo di nascosto anche quando questi si dette alla macchia. Lo seguì nella latitanza, consumò le "nozze rusticane" e partecipò per pochi giorni alle azioni delittuose della banda, fungendo da vivandiera e da carceriera di un ricco possidente, tenuto in ostaggio. Catturata dopo una decina di giorni, in uno scontro a fuoco, grazie ai denari del padre, fu prosciolta dall'accusa di brigantaggio, essendo riuscita a dimostrare - attraverso false testimonianze - di essere stata costretta con la forza a seguire il brigante Luongo.
Rivelatrice di contraddizioni è la vicenda di Filomena Pennacchio, una tra le più note "brigantesse". Figlia di un macellaio, nata in Irpinia nella provincia borbonica di Principato Ultra, fin dall'infanzia incrementò il povero bilancio familiare servendo come sguattera presso alcuni notabili del paese. Alcuni mesi dopo il primo incontro con Giuseppe Schiavone, famoso capobanda lucano, vendette per alcuni ducati il poco che aveva e lo seguì nella latitanza. La vita brigantesca la rese subito un'intrepida combattente, evidenziando le sue inclinazioni sanguinarie. Con Schiavone partecipò a furti di bestiame ed a sequestri di persona, trovando modo di meritarsi il rispetto e la simpatia di tutta la banda.
Non si sottrasse nemmeno all'omicidio, avendo preso attiva parte all'eccidio di nove soldati del 45° Reggimento di Fanteria nel luglio del 1863 a Sferracavallo.
Era altresì capace di slanci di generosità come è testimoniato dal soccorso che offrì ad alcune vittime della banda Schiavone e per aver cercato di salvare alcune vite.
Di lei si disse anche, ma senza suffragio di prove, essere stata non solo l'amante di Schiavone ma anche di Carmine Crocco, il leggendario e riconosciuto capo di tutte le bande lucane e dei suoi luogotenenti Ninco Nanco e donato Tortora.

La presenza di più donne nella banda portava facilmente ad episodi di gelosia, dei quali si servì largamente l'esercito occupante per annientare il nemico. E fu proprio la
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Maria Capitanio
gelosia di Rosa Giuliani, cui Filomena Pennacchio aveva sottratto i favori di Schiavone a tradire quest'ultimo: la delazione della Giuliani consentì, infatti, l'arresto di Schiavone e di altri briganti che furono subito condannati a morte. Prima di morire il feroce Schiavone volle rivedere ancora Filomena, gravida di un suo figlio.
Fu un incontro tenerissimo tra la brigantessa regina di ferocia ed il capobanda terrore delle valli dell'Ofanto che in ginocchio - chiedendole perdono - le baciava le mani, i piedi ed il ventre pregno.
Filomena Pennacchio però non visse - come altre - nel ricordo del suo uomo. Preferì - allettata da una promessa di sconto della pena - tradire anch'essa e fece catturare con le sue rivelazioni un altro luogotenente di Crocco, Agostino Sacchitiello ed altre due famose "brigantesse", Giuseppina Vitale e Maria Giovanna Tito. Condannata a venti anni di reclusione, la Pennacchio godette di vari sconti di pena: dopo sette anni di detenzione tornò a casa ed anche per lei si aprirono le porte di una vita anonima.
Nella storia della calabrese Marianna Olivierio, detta "Ciccilla", è sempre il sentimento della gelosia il detonatore che fa esplodere la determinazione criminale della "brigantessa": Ciccilla era una bellissima ragazza dalle lunghe e nere chiome e dagli occhi corvini. Sposa di Pietro Monaco, un ex soldato borbonico ed ex garibaldino, datosi al brigantaggio dopo un omicidio, non lo aveva inizialmente seguito. Rimase nel proprio paese, accontentandosi di rari, furtivi momenti di intimità con il marito quando questi scendeva dai monti, fino a quando venne a sapere che Monaco aveva avuto una fugace relazione con la sorella. Ciccilla decise di vendicarsi. Invitò la sorella in casa e - nel cuore della notte - la trucidò con un pugnale, martoriandone il corpo con una trentina di colpi d'ascia.

Subito dopo - a dorso di mulo - raggiunse la banda del marito, divenendone addirittura il capo di fatto. Il raccapriccio che accompagnò le sue gesta si diffuse in tutto il circondario. Perfino i suoi stessi briganti ne ebbero terrore e disprezzo. Usava, ad esempio, infierire sui cadaveri dei nemici uccisi, mutilandoli atrocemente con coltelli e rasoi che portava sempre con sé. Catturata dopo la morte del marito, fu disconosciuta dai suoi stessi familiari. Anche la madre rifiutò di visitarla in carcere. Il processo, che fu celebrato a Catanzaro con grande partecipazione di gente e che vide come testimoni a carico anche i parenti suoi e del marito, si concluse con la condanna a morte. Ed è uno dei rarissimi, se non l'unico, caso di sentenza capitale per una donna. La sentenza - contrariamente a quanto sostengono taluni frettolosi cronisti - non fu poi eseguita ma tramutata nell'ergastolo perché il governo italiano non aveva interesse a mostrarsi all'opinione pubblica internazionale come giustiziere di una donna.
Storie brigantesche, come si vede di inaudita ferocia, ma anche storie di teneri sentimenti che le esasperazioni di una guerra civile non riescono a sopprimere del tutto.
Accanto a donne che uccidono senza pietà e che spingono la loro ferocia - come affermano le cronache giornalistiche e giudiziarie dell'epoca - fino ad inzuppare del sangue delle loro vittime il pane che poi addentavano avidamente, vi sono donne che continuano a mandare messaggi d'amore ricamati su fazzoletti (Maria Suriani al "capitano Cannone") o a ricamare per mesi l'immagine dell'amante (con tanto di fucile a trombone) su una tovaglietta, una delle quali ancora oggi viene conservata come cimelio.
Nemmeno sfugge alla dura legge della guerriglia e della latitanza il bisogno di sentirsi pienamente donna, di essere madre.
Sono molti gli esempi di briganti catturati in combattimenti che, ad un più attento esame, si rivelano "brigantesse" in stato di gravidanza. E' difficile però sostenere che ad indurle alla gravidanza sia solamente il calcolo previdente di una maggiore clemenza dei giudici in caso di arresto e la prospettiva di un trattamento carcerario più umano.

E', semmai, più lecito pensare che le gravidanze siano la dimostrazione della necessità di chi si è dato alla macchia di ricostruirsi una vita normale, anche attraverso i sentimenti più naturali.
Rosa Reginella, della banda di Agostino Sacchitiello viene catturata con il suo compagno a Bisaccia nel novembre 1864, dopo un accanito combattimento a cui non si sottrae, nonostante la gravidanza avanzata. Due mesi dopo, infatti, partorisce in carcere.
Gravide al momento della cattura sono anche Serafina Ciminelli - simile per aspetto e corporatura ad una bambina - compagna del capobanda Antonio Franco e la bella Generosa Cardamone, amante di Pietro Bianchi.,
Per le brigantesse
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Maria Luci Nella
catturate si aprono le vie del carcere. La legislazione dell'epoca non prevede condanne differenziate per i due sessi ma l'orientamento dei giudici appare quello di comminare condanne più lievi alle donne, anche in considerazione del fatto che quasi mai è possibile processualmente accertare la volontarietà nella scelta di delinquere.
Normalmente la pena inflitta si aggira sui quindici anni di carcere, spesso in parte condonati.
Si tratta però di una condanna solo in apparenza più lieve.
Infatti, le condizioni di vita all'interno dei vecchi bagni penali borbonici, trasformati in carceri del Regno d'Italia sono pessime: il rancio è appena sufficiente a sopravvivere, le condizioni igienico sanitarie sono impossibili. Costrette ad una vita di stenti, a continui spostamenti, a marce forzate le "brigantesse" accusano - più dei loro uomini - il peso dei disagi fisici e quando vengono catturate mostrano i segni della debilitazione.
La mancanza di igiene (per coprirsi spesso indossano gli abiti sporchi dei nemici uccisi in combattimento) produce infezioni, che poco o niente curate in carcere, le portano ad una morte prematura. E' il caso, ad esempio, della Ciminelli che appena un anno dopo la cattura muore come recita l'arido atto di morte del comune di Potenza per "setticemia", provocata da un'infiammazione del perineo.

Il dramma delle donne del brigantaggio si consuma nell'indifferenza, quando non nel disprezzo, nel silenzio dell'opinione pubblica. Gli atti ufficiali dei Carabinieri Reali, quelli delle Prefetture, i fascicoli processuali le accomunano tutte ai loro uomini, non attribuendo mai alle donne del brigantaggio un ruolo di soggetto sociale autonomo.
Le cronache giornalistiche e gli scrittori coevi le descrivono solo come manutengole, amanti, concubine, " ganze", "drude", donne di piacere dei briganti. Ciò ha impedito di prendere in considerazione il fenomeno e non ha consentito uno studio più approfondito sui risvolti sociali e politici della rivolta delle donne meridionali.
Delle "brigantesse" restano oggi solamente le poco foto che la propaganda di regime ha voluto tramandare per una distorta lettura iconografica del brigantaggio.
Così, accanto a "brigantesse" che si sono fatte ritrarre - armi in pugno - in abiti maschili, vi sono le foto ufficiali dopo la cattura e, talora, dopo la morte in una postura innaturale.
Come i loro uomini, trucidati e frettolosamente rivestiti, legati ad un palo o ad una sedia, gli occhi rigidamente spalancati, con in mano i loro fucili e circondati dai loro giustizieri.
Macabro trofeo di una guerra civile occultata.
Emblematiche sono le foto che si conservano di Michelina Di Cesare, una delle pochissime "brigantesse" uccise in combattimento: alcune la ritraggono negli abiti tradizionali che ne risaltano la bellezza mediterranea.
L'ultima, scattatale dopo la morte, mette in evidenza lo scempio fatto sul suo cadavere.
Nelle macabre fattezze di Michelina, sconvolte dalla violenza, si può leggere tutto il dramma e le sofferenze dei contadini del Mezzogiorno.
NOTA
Le immagini sono state riprese dal sito:
www.alberodelledonne.it/brigantesse.htm

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Non condivido le tue idee, ma darei la vita per vederti sperculeggiare quando le esporrai.
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09/10/2010 10:29

Donne e rivoluzione: l’altro volto del brigantaggio

di Monica Sanfilippo
 

 Brigantessa

Nel brigantaggio post-unitario, espressione sociale di nuove ed endemiche difficoltà meridionali, confluiscono motivazioni diverse, dall’esasperazione contadina per l’insoluto problema delle terre al legittimismo borbonico, dall’avversione verso i “galantuomini” pronti a schierarsi con la nuova classe dirigente all’ostilità per le regole imposte dal governo piemontese, dalla leva obbligatoria al prelievo fiscale. Costante ed evidente risulta l’attrito del nascente stato italiano nel penetrare nei territori annessi. La letteratura sull’argomento è oggi vasta e sempre più esaustiva, soprattutto nella misura in cui il fenomeno è stato letto come risposta ad una mancata “rivoluzione agraria”, come tentativo legittimista, come guerra civile. Più di recente, il quadro si arricchisce di ulteriori aspetti, piuttosto insoliti per una storia al “maschile” fatta di ribelli fuorilegge, ed è la partecipazione della donna alla lotta brigantesca, ora fiancheggiatrice ora essa stessa a capo di una banda.  
 
Numerosi sono i profili delle donne briganti, nonostante il ritardo degli storici a considerarne attivamente il ruolo. Inoltre, soltanto di recente l’indagine ha alleggerito gli accenti mitici della narrazione nei resoconti biografici a vantaggio di letture oggettive relative a cronache dell’epoca e agli atti dei processi. Ripercorrendo a grandi linee la storiografia sull’argomento, il primo lavoro organico sulla presenza della donna nel brigantaggio si deve a Jacopo Gelli (Banditi, briganti e brigantesse dell’Ottocento, 1931), che imposta l’opera secondo una visione fortemente conservatrice in linea con le interpretazioni della prima metà del Novecento: le donne briganti sono categoricamente “drude” al servizio di delinquenti, assassine e “virago della malavita macchiaiuola”. La situazione rimane inalterata negli sporadici tentativi di riportare storie di brigantesse, fino alle soglie degli anni settanta del Novecento con il più noto volume sull’argomento, Le brigantesse di Franca Maria Trapani. La sua ricostruzione, per alcuni versi ancora legata ad elementi leggendari, rappresenta una svolta nell’approccio al fenomeno, nell’intento di considerare figure come Maria Rosa Martinelli, Filomena Cianciarullo, Filomena Pennacchio, Maria Oliverio, Serafina Ciminelli, ecc., donne autonome e “psicologicamente” indipendenti nei comportamenti e negli intenti, nel complesso “una prima ribellione femminile allo stato di soggezione atavico e tradizionale delle donne nelle province del Mezzogiorno”. Ad oggi la ricerca si arricchisce di nuovi volti e storie, ad opera di autori come Maurizio Restivo e Valentino Romano, dove la ricostruzione oggettiva prende il sopravvento sugli elementi popolari della narrazione.
 Brigantessa
Grazie a questa tendenza di studi, è stato possibile evidenziare un dato di fatto: la massiccia presenza delle donne al processo di ribellione del Mezzogiorno subito dopo l’Unità. Il brigantaggio fu un crogiolo di motivazioni diverse, per questo è ancora più difficile definire quanta coscienza legittimista abbia potuto animare il fenomeno delle donne briganti. Sicuramente la presenza della brigantessa ribalta il ruolo stereotipato della tradizione femminile del Mezzogiorno e, conoscere i loro ritratti sul piano storico, grazie al recupero di cronaca e atti di processi, ci informa della profonda determinazione e del coraggio insoliti agli occhi dei moderni di cui furono capaci, fautrici di azioni illecite e particolarmente violente, atti estremi di efferatezza, affermazione identitaria e ribellione, ora contro i soprusi baronali, ora contro la Guardia Nazionale, contro il proprio coniuge, o familiari, se necessario, fino a comandare in prima persona una banda, maneggiare armi di taglio e da fuoco, prelevare riscatti; o, più semplicemente, coinvolte nel manutengolismo, nella fitta rete di relazioni clandestine con i parenti datisi alla macchia.
 
Alcuni ritratti chiariscono le tipologie sopra identificate. Anche se è difficile operare una scelta, ci riferiamo nello specifico ai casi più noti, come quelli di Michelina Di Cesare, Filomena Pennacchio, Maria Oliverio, le cui storie cruenti hanno lasciato un alone mitico presso le popolazioni d’origine, ora “riciclate” nelle canzoni popolari, nei testi dei cantastorie e delle ballate profane, ora ripercorse nell’immaginario di studiosi e letterati romanzando le vicende in drammi e novelle.
 
Michelina Di CesareMichelina Di Cesare (1841-1868), per esempio, è un’icona del brigantaggio femminile, la più ritratta nei testi sull’argomento, dapprima giovane e bella in abiti tradizionali e con la doppietta, poi fotografata nuda e sfregiata in seguito alla cattura e all’uccisione. Michelina incontra e segue Francesco Guerra, ex sergente dell’esercito borbonico passato alla macchia subito dopo la nascita del Regno. Dalle testimonianze dei processi, è additata più volte come amante, “druda” e braccio destro del Guerra, al quale la donna gli rimarrà fedele fino alla morte, quando entrambi vengono catturati presso il Monte Morrone, sempre nel casertano, e uccisi nell’agguato stesso. «Da qualche tempo – riferisce il rapporto del Comando – si stavano perlustrando quei luoghi accidentati […] quando alla guida venne in mente di avvicinarsi a talune querce che egli sapeva alquanto incavate, ed entro le quali poteva benissimo nascondersi una persona. Fu buona la sua ispirazione, perché […] scorse appoggiati ad una di quelle querce due briganti, che protetti un po’ dalla cavità dell’albero […] cercavano ripararsi dalla pioggia. Appena scortili, […] il Capitano […] con un salto fu addosso a quei due ed afferratone uno pel collo, lo stramazza al suolo e con lui viene ad una lotta corpo a corpo, finché venne dato ad un soldato di appuntare il suo fucile contro il brigante e di renderlo cadavere. […]. Quel brigante fu subito riconosciuto pel capobanda Francesco Guerra, ed il compagno che con lui s’intratteneva, appena visto l’attacco, tentò di fuggire; una fucilata sparatagli dietro dal medico di Battaglione Pitzorno lo feriva, ma non al punto di farlo cadere, che continuando invece la sua fuga, s’imbatteva poi in altri soldati per opera dei quali venne freddato. Esaminatone il corpo, fu riconosciuto per donna e quindi per Michelina De Cesare druda del Guerra.» (V. Romano, Brigantesse, pp. 100-101). I loro corpi furono esposti il giorno successivo come monito per la popolazione.
 
Filomena PennacchioFilomena Pennacchio (1841 - ?), secondo la tradizione, esordisce uccidendo il marito, un cancelliere di Foggia, al quale era andata in sposa per risollevare le sorti della famiglia, infilzandolo alla gola con uno spillone. L’omicidio la consegna alla macchia dove si aggrega alle bande locali. Diversi tribunali, tra Potenza, Avellino e Lucera, testimoniano negli atti i numerosi capi d’accusa, dalla grassazione all’estorsione, fino all’omicidio volontario. Amante di Giuseppe Schiavone, fu catturata, pare, in seguito alle gelosie di Rosa Giuliani, precedente compagna del brigante, che denunciò il rifugio della banda. Mentre Schiavone fu condannato a morte, la Pennacchio scontò la pena in carcere, inizialmente stabilita in vent’anni di lavori forzati, poi ridotta. Uscì nel 1872 anche se della sua vita successiva non ci sono notizie.
 
Anche Maria Oliverio (1841 - ?) si dà alla macchia dopo un omicidio, quello di sua sorella Teresa, ritenuta colpevole di tradimento con suo marito Pietro Monaco, ex sergente borbonico, anch’egli destinato al brigantaggio dopo l’Unità. La donna, vestiti i panni di uomo, si associa alla banda del marito operante in Sila, fino a quando, in seguito ad un attentato in cui Pietro perde la vita, ne assume il comando. Ciccilla, secondo la tradizione, è nota come “la brigantessa delle brigantesse”, l’unica ad essere condannata a morte “mediante fucilazione alla schiena”, dal Tribunale Militare. Condanna che in realtà non sarà eseguita, ma trasformata nel carcere a vita da scontare nella prigione di Finestrelle in Piemonte, triste luogo di destinazione di molti condannati del brigantaggio.

 

Bibliografia:
 

Gelli J.,Banditi, briganti e brigantesse dell’Ottocento, Bemporad, Firenze 1931

Molfese F.,Storia del brigantaggio dopo l’unità, Feltrinelli, Milano 1966

Monti M.,I briganti italiani, Longanesi, Milano 1959

Piromalli A., Scafoglio D., Terre e briganti. Il brigantaggio cantato dalle classi subalterne, G. D’Anna, Firenze 1977

Restivo M.,Ritratti di brigantesse. Il dramma della disperazione, Piero Lacaita Editore, Manduria 1997

Romano V.,Brigantesse. Donne guerrigliere contro la conquista del Sud (1860-1870), Controcorrente, Napoli 2007

Sanfilippo M., Maria Olivares, libretto d'opera su musiche di D. Giannetta, in "Sipario", Milano 2010


Scarpino S.,La guerra cafona. Il brigantaggio meridionale contro lo stato unitario, Boroli, Milano, 2005

Trapani F.M., Le brigantesse, Canesi, Roma 1968

postato da: spazisonori alle ore 17:42 | link | commenti
categorie: brigantesse, donne&rivoluzione
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